Italia
July 9, 2018
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Le risorse genetiche vegetali
L’aumento del fabbisogno di cibo per una popolazione mondiale che l’ONU stima possa toccare i 9,8 miliardi di individui entro il 2050[1], la riduzione delle terre coltivabili a favore dell’urbanizzazione, nonché i cambiamenti climatici che già oggi stiamo sperimentando e che mettono a dura prova la resilienza del comparto primario, rappresentano le principali sfide che il sistema agricolo mondiale è chiamato ad affrontare.
Questa sfida può essere vinta solo coniugando l’esigenza di aumentare le rese agricole con la necessaria salvaguardia e sfruttamento delle risorse vegetali esistenti. Al mondo della ricerca è richiesto un notevole sforzo perché possa soddisfare in tempi rapidi, in termini sia quantitativi che qualitativi, le esigenze di un mondo che chiede di produrre, oltre a cibo e mangimi, anche bioenergia e biomateriali, attraverso pratiche ecosostenibili.
Semplicemente con le abitudini di tutti i giorni i consumatori incontrano la biodiversità sotto varie forme; ogni frutto o verdura che consumiamo rappresenta una specifica risorsa genetica, coltivata localmente o in altre regioni del mondo. Anche dietro ogni singolo ingrediente vi è probabilmente un ricercatore che, fra centinaia di nuove varietà candidate ad entrare in commercio, ha riscontrato caratteristiche favorevoli, ad esempio una tolleranza allo stress ambientale, alle malattie, l’adattamento alla trasformazione industriale o, semplicemente, una migliore consistenza o un gusto diverso.
Così, in tanti casi, gli "antenati" di una varietà possono in realtà provenire da altre aree del mondo, dove caratteristiche uniche e utili sono state rilevate. Tali risorse genetiche, di norma, portano con sé anche tratti indesiderati che sono svantaggiosi per gli agricoltori. Pertanto, è compito dei costitutori avviare il processo per la loro rimozione, combinando le caratteristiche delle varietà attuali con i tratti interessanti portati dal nuovo genitore. Per esempio, per mettere a punto e trasferire nella prima varietà commercializzabile di barbabietola da zucchero un tratto di resistenza al nematode rinvenuto in una razza selvatica ci sono voluti dai 10 ai 15 anni[2].
Si tratta quindi di un processo lungo, laborioso e costoso, in grado però di consegnare all’agricoltura traguardi significativi in termini di resa produttiva: nel caso del frumento duro la ricerca ha, ad esempio, consentito incrementi produttivi pari a circa un quintale ad ettaro ogni 5 anni. Questo importante lavoro, su cui le aziende sementiere arrivano ad investire il 15-20% del proprio fatturato annuale, può sopravvivere solo se sorretto da un sistema di regole univoche e chiare, garantendo un equo accesso alle risorse genetiche vegetali.
Strumenti per la tutela della biodiversità
Al fine di regolamentare l'accesso e la conservazione delle risorse genetiche la comunità internazionale, sulla base della Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD), ha istituito due strumenti internazionali per preservare la variabilità vegetale e l'accesso alle risorse genetiche: il Trattato internazionale sulle risorse genetiche vegetali per l'alimentazione e l'agricoltura (IT-PGRFA) e il Protocollo di Nagoya. Entrambi gli accordi sono giuridicamente vincolanti e stabiliscono un equo compenso finanziario per l'utilizzo delle risorse genetiche.
Il Trattato Internazionale è stato adottato a Roma il 3 novembre 2001 dalla 31a riunione della Conferenza della FAO e successivamente ratificato dal Parlamento italiano con legge n. 101 del 6 aprile 2004[3]. Ad oggi 144 nazioni[4] sono firmatarie dell'accordo che comprende 64 specie di interesse per l’alimentazione umana e animale, in grado di soddisfare circa l’80% della domanda globale di alimenti e mangimi[5]. Gli usi industriali delle risorse genetiche non sono tuttavia disciplinati. Il Trattato promuove un sistema multilaterale basato su un accordo standard, salvaguardando inoltre le esigenze della ricerca varietale.
Il Protocollo di Nagoya invece disciplina tutte le risorse genetiche, vegetali, animali o microrganismi per tutti gli utilizzi e impone un complicato modello di gestione bilaterale delle risorse genetiche, mediante specifici accordi tra l’utilizzatore e il fornitore di tali materiali. Il Trattato FAO ha la priorità sul protocollo di Nagoya per le specie e gli usi che disciplina, tuttavia, ogni volta che una specifica risorsa genetica non risulta coperta dal Trattato (annex I), il protocollo di Nagoya subentra e ne regolamenta sia l’accesso che la condivisione dei benefici. Va inoltre evidenziato che a differenza del processo di scambio di risorse genetiche standardizzato previsto dal Trattato, il Protocollo di Nagoya impone ai paesi di sviluppare individualmente la legislazione nazionale di attuazione; queste norme variano significativamente tra paese a paese e persino l'attuale regolamento UE 511/2014 indica semplicemente misure di conformità generali senza dettagliare aspetti operativi. Più in dettaglio significa che, qualora i costitutori desiderino utilizzare una risorsa genetica nell'UE di una specie non regolamentata dal Trattato FAO e quindi che ricada nel Protocollo di Nagoya, essi debbono ottenere certificati di conformità riconosciuti a livello internazionale dal paese di origine della risorsa genetica, in particolare la cosiddetta “due diligence” che attesta che le procedure e le attività sono conformi alle disposizioni dettate dal Protocollo, talvolta integrate da compensazioni negoziate bilateralmente.Poiché anche in caso di attività di screening varietale queste dichiarazioni devono essere prodotte per ciascuna risorsa genetica coinvolta, il carico di burocrazia rischia di disincentivare concretamente l’attività di ricerca, anche in considerazione del fatto che in ogni stato membro dell'UE, questi passaggi assumono forme e tempistiche diverse, ovvero coinvolgono agenzie governative differenti.
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Published: July 9, 2018